impunità imprevista della menzogna

18 Marzo 2023 Lascia il tuo commento

Se è vero che ciò che il bruco chiama la ‘fine del mondo’ il resto del mondo chiama ‘farfalla’, ci si chiede se cambia qualcosa per il bruco durante la metamorfosi, e se la metamorfosi fornisce alla farfalla lo stupore estetico che lei, la farfalla voglio dire, regala al mondo.

 

Se questa vuole essere la metafora di una vicenda del sé, che gusto c’è a diventare ‘farafalla’ se nel venir fuori dalla crisi metamorfica non ci si rallegra di se stessi? E cosa cambia della triste fine del bruco se lui, il bruco intendo, per quel che lo riguarda, resta bruco fino alla fine?

 

Ci vuole un ‘mondo’ (esterno) che pianga il bruco e si congratuli con ogni farafalla.

 

Forse equivale a dire che ci vuole un ‘altro’ a raccontarci quanto ci accadde. A ricucire lo strappo durante il quale, non essendo più quanto eravamo, e non essendo ancora quello che saremmo poi diventati, mancava una nostra testimonianza all’evento che su noi era imperniato. 

 

Deve essere questa, – mi illudo? – la necessità assoluta, per ciascuno, di dover imbattersi in un ‘altro’ che ci stia accanto: a piangere la nostra perdita e a celebrare il nostro ritrovamento.

 

Io non l’ho mica trovato questo amore a contenere – col muro di mattoni arrossati del sangue dei tagli quotidiani tirato su giorno per giorno – i sentimenti mutevoli del vivere, gli umori corrispondenti al perdermi nel labirinto di antiche principesche dimore abbandonate, e al ritrovarmi in piazze sconfinate pavimentate di silice e d’avorio.

 

Io non l’ho trovato mai. E mi sono finto che invece fosse dato. Eccola là, quella lei. Unica destinataria della vita mia. Ho scritto i suoi movimenti. I sentimenti che guidano i suoi passi. La sua potenza.

 

Ho scritto i suoi sensi in locuzioni letterarie da scriba apprendista, li ho seminati sui fogli. Come fossero i miei.

 

Ho fatto da muro io. Rosso di vergogna per le bugie che dico. Sono stato il suo mondo.

 

Se dovesse arrivare il gioco è fatto. La vita sua già arredata. Il cuore, se ne ha uno, apparecchiato. E gli occhi miei: socchiusi.

 

Ora le sto inventando descrizioni a proposito della qualità della luce radente il campo davanti alla miniera. Le dico del bagliore che geme, sera e mattina, all’imboccatura del pozzo principale. Come esalasse un nome, un amore, la crescita dal vuoto, i miei pensieri.

 

Non le racconto mai il gusto che mi dà l’impunità imprevista di questo mio ‘mentire’. 


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il dopo-cinema della domenica sera
….vivaddio !

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