da veleno a medicina

9 Aprile 2023 Lascia il tuo commento

Balla sulla via la vita che è la ragazzina sufficientemente carina con espressione seria a recitare l’offesa del finimondo di stare al mondo e io vado.

 

“Tantovale!”

 

Caminando volgo le spalle a tutti secondo un mio ben sperimentato rito deambulatorio.

 

Vado passo dopo passo. I tuoi capelli neri mi immagino che siano l’insegna dei legionari che mi preme di tenere d’occhio.

 

E, nell’atmosfera futurista di questo febbrile immaginare, non aspetto che i barbari balbettino le loro urlanti affabulatorie maledizioni sulla frontiera dell’impero d’amore. Entro questi confini letterari che mi difendono dagli equivoci mi verso come un lago d’inchiostro. Oggi posso almeno parlare.

 

E grido odi in un idioma estremo. In tardo latino adatto a esprimere esclusivamente la mia consunzione d’amore. Perché da sei anni ti amo. E urlo. E non dici niente. E ti drusci addosso. E ci si muore di sesso.

 

Pure da vecchi. Il corpo vecchio sa. Conosce. Il corpo vecchio si fa antico. Ha l’erezione irridente dei candelabri a sette braccia. Sette volte per ogni notte amore. Sette novelle. E gridasti.

 

Vado prima che qualsiasi cosa possa succedere oltre te. Dopo di noi non dovrà esserci niente. Distruggo l’ipotesi di un tempo corrispondente a certi trascorsi e ben noti momenti di stupore.

 

Le sospensioni, che m’immaginavo trasparenti vitree allusioni, deprezzate si distendono come guanti da guerra arrugginiti poiché non è confortevole soffermarsi (al contrario di quello che mi lasciavo andare a pensare).

 

Soffermarsi mi diventa lascivo. E ricordo che la lascivia era fino ad un certo momento confortevole. Ma era prima di te. Era la morte dopo il desiderio. Ora niente più finisce. È amore tantrico. Mi nutro di te che ascolti.

 

Dico:

 

“Sei mia!”

 

E tu confermi. Che non è possesso.

 

“È soltanto nudo sesso.”

 

Il discorso è un divano di velluto antico si cui si faceva all’amore tutte le sere. Come dev’essere un matrimonio.

 

Era bello obbligarsi reciprocamente al piacere felice e risolutivo della notte quando il buio si faceva strega amica che veniva dentro dalla fessura della finestra grande che affacciava sul prato lunare intorno casa.

 

Tutt’altro che un orgasmo improvvido tu mi comandavi

 

“…amore mio devi arrestarti perché se tu dovessi passare prima di me non saremmo più noi insieme e al crocevia il semaforo, ancora sul rosso, ci renderebbe spettatori coinvolti al cuore nero d’un colpevole scontro addosso al treno dell’imbecillità di odiosi  sprovveduti che arrivano sempre esclusivamente di traverso a qualsiasi discorso abbia un senso.

 

Stretti in attesa del piacere definitivo che ci ammutolirà si guarda il convoglio nuziale strombazzante che scorre da nord a sud scivolando sulla semisfera dei nostri globi oculari diretto all’estremo occidente ultima frontiera del giorno.

 

Vieni ora. Tutto è passato. La festa sbianca. Godiamoci il poco che s’è risparmiato. L’amore nostro è la goccia di veleno sulla coda dello scorpione. Sai la sera d’un giorno di Pasqua. Che punge il pensiero di te. Che manchi.

 

L’assenza di chi certamente mi ama trascorre da veleno a medicina.


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