portami via che mi sento di morire
“Una mattina mi sono svegliato.. “
così cominciava: ma quando sarà stata la prima volta? dopo tanto tempo assume la natura del sogno. È vicenda umana persistente. Sento una canzone e l’esperienza acustica fa del corpo un interprete assoluto. La coscienza per un attimo si ritrae. Poi però
“… ho trovato l’invasor..”
… e allora la coscienza dilaga di nuovo e la visione si ritrae. Va sulle montagne. Nei boschi. Nessuno oserà esplorare la foresta. La foresta è freddo (…o afa) e fame e foglie, e libertà e paura e voglie e inedia e tane. E sentieri. E rumori vaghi. È un vivaio di materiali primitivi. È inazione e iniziazione. Spari e pazienza. Nella foresta si deve parlare sottovoce. La foresta è dignitosa e sicura. Accogliente e muta. La foresta nasconde e trasforma. È una malattia necessaria.
“Oohh … portami via!”
Ricordo bene questa invocazione. La gridavano uomini e donne già adulti. Commoventi: convincenti più che in tutte le altre occasioni. Come fossero a casa loro in quelle parole. Portami via! Portami via! Di che si parla qui, mi chiedevo: era così comprensibile di voler essere portati da un’altra parte.
“Bella ciao bella ciao bella.. ciao!”
Così poi l’amore. Bella portami via! Se sei bella portami via. E fu che il canto ci accompagnava quando io e lei e molti altri scoprimmo il tramonto della lucidità dei ragionamenti e il vapore denso del desiderio che abbellisce le giornate con l’ideale accordo. Si tramontava come partigiani che si incamminano ai boschi.
“Bella … bella … bella .. non andare portami portami non andare”
Non si finirebbe mai.
“oohh portami via che mi sento di morire..!”
Gli esseri umani si sentono le cose, ché sentire è capire, essere certi. Sentire è sapere dove si vuole stare. Che se non si va via si muore. Non proprio si muore: ci si sente di morire. Perchè sentirsi di morire è l’unica morte che noi conosciamo. La morte che siamo vivi.
“Portami via. Portami via. Portami via.. bella! Portami!”
E si saliva in montagna o si scendevano i valloni tra il paese e la campagna grande finalmente insieme ai nostri simili. Salire. Farsi rapire. Perdersi. Liberarsi dal sentimento di morire. E d’altra parte eravamo già grandi. E..
“…e se io muoio da partigiano..”
perché può sempre essere, non è che si voglia ma è che si sa. Si sa che può essere. Si sa che può essere che una scelta di parte possa determinare eventi irreversibili. La vita. La morte. La malattia. La guarigione. La pazzia. L’indegna violenza. L’arrogante pretesa. Si sa. Non si vuole morire. Ma non si vuole vivere sentendosi morire. L’unica morte che sperimentiamo non è quella filosofica. È quella fine di noi nel tempo che sappiamo vedere. La morte è un sogno visionario che rende umani. La paura di morire è paura di vivere prendendo una posizione. Politica.
E dunque: se io muoio da partigiano…
“…tu mi devi seppellire!”
… che altro! Dimenticati di me. Devi seppellirmi, me che non ti ho mai chiesto nessun dovere. Dimenticami. Lasciami andare.
Solo: una cortesia! Una gentilezza. Nessun eroismo e nessuna religiosa pietà. Dovranno entrarci la terra e i fiori. Le montagne e l’ombra. Allusioni all’anima che non c’è saranno l’ombra e il profilo curvo dei monti. I picchi acuti. Tutti i grattacieli di pietra.
“..così le genti che passeranno diranno guarda …che bel fiore!”
…gran bella occasione cogliere l’animo: cioè l’evidente presa di posizione, la fisionomia di chi ha scelto una parte ben precisa. È vita quotidiana, la resistenza. È per riuscire a pronunciare bene ogni parola.
Tanto è vero che poi, alla fine.. quando quasi tutti piangevano mentre cantavano… c’era quella parola indimenticabile che non ha figura. Quell’idea specifica.
Libertà.
Tre sillabe che finivano in una ‘a’ finale aguzza e innevata dal proprio accento come il picco della curva di un’infezione.
“…eqqquéstoèilfióooreeeeeee/ délpàaaartigiànooooo/ mòrtopéeeerlaaaalìiiibeeeertàaaaaa …”
Mortoperlalibertà nella memoria sta come un disegno non come singole parole. Il disegno di tante rosse bandiere.
Dice che eravamo andati via perché ci sentivamo morire. Non perché avevamo paura di morire.
E questo fa una differenza. Perché uguali non siamo. Fa che molti non hanno mai più capito che atterrire le persone con la paura della loro morte fisica le priva dell’immunità. Le rende schiave di ogni rimedio. Non è una buona intenzione esaltare l’obbedienza con la paura.
Allora. In ogni caso. Anche oggi, e forse in parte proprio perché è il giorno che è, mentre ascolto quella canzone, nella stanza isolata, viene da dire
“No!” (ad libitum)
“Non smettere, portami via”.
“E se.. e se… e se… “
“Beh ce lo siamo già detto no?! sai già che devi fare, bella….. ciao!”
grosseto 25 aprile 2020
2 commenti
Torneremo a camminare nei boschi “con amori vari e belli”, nel frattempo resistiamo con quel poco che ci hanno lasciato. Con quel poco che è molto e che in effetti non è che ce l’abbiano lasciato, è che non possono proprio levarcelo.
“Non è meglio morire da vivi che vivere da morti?” Una domanda impegnativa trovata in un libro a tarda notte. Intanto viviamo. Resistendo.
…” Quelli che hanno letto un milione di libri
E quelli che non sanno nemmeno parlare
Ed è per questo che la Storia dà i brividi
Perché nessuno la può negare
La Storia siamo noi
Siamo noi padri e figli
Siamo noi
Bella ciao, che partiamo
La Storia non ha nascondigli
La Storia non passa la mano
La Storia siamo noi
Siamo noi questo piatto di grano”