non debba mai pentirsi chi tanto un giorno amò
LEONORA
Obliarlo! Ah, tu parlasti
Detto, che intendere l’alma non sa.
Di tale amor che dirsi
Mal può dalla parola,
D’amor che intendo io sola,
Il cor s’inebriò! Il mio destino compiersi
Non può che a lui dappresso…
S’io non vivrò per esso,
Per esso io morirò!
INES
Non debba mai pentirsi
Chi tanto un giomo amò!
(G. Verdi – Il Trovatore – Cavatina di Leonora )
Amore e musica. Lo sciame di onesti cittadini appena rasati da sé, di truffatori dai capelli lucidi come autostrade, di melomani da copione magri malmessi, di rari esemplari di aristocratici vestiti di medaglie al valore a sostenere al braccio con spazientita distrazione donne belle come la nudità dei loro corpi di nebbia sulfurea pronti allo scoppio, e la tribù di bellezze tutte uguali dall’arco delicato della pianta dei piedi alle altezze estreme delle chiome che divampano svettanti, e le ragazze sottili come fiammiferi alati, e mille altre signore sgusciate dalle fabbriche della noia matrimoniale dopo un bagno un poco degradante in miscela d’olio industriale e nicotine esotiche, e gli usceri così come erano prima, e le maschere a braccetto coi generici, e le comparse baciate sul collo dai fazzoletti rossi del proletariato sempre soltanto parzialmente disposto alla mediazione sentimentale, e gli orchestrali come clown incoronati dalla estatica goffaggine dei loro strumenti necessari alle alchimie acustiche, e la segretaria di edizione ape regina sorniona inumidita da proprie convinzioni estetiche succose aliene allo sciame brulicante e insomma tanto ben nutrita di accorgimenti sociali da non cedere in nessuna occasione alla seduzioni facili del brusio ruffiano, e il regista ubriaco di applausi che l’hanno stordito ma ancora non convinto di niente cosicché si spinge sulla strada e va via e non vuole essere più coinvolto nelle riflessioni di cui si accenna qua, e passanti come barche piccole che traversano il traffico pesante delle navi nel porto: stanno tutti insieme fuori dal teatro d’opera nella nuvola monumentale trasparente che impregna l’aria degli ormoni del pensiero e del desiderio volatili per loro essenza a impalcare una nuvola che è una vera e propria installazione d’arte primitiva.
E, dentro questo fenomeno di meteorologia psichica, tutti si dannano per reperire parole adatte a ricordare o evocare un amore, spinti dalla propulsione lirica della cantante, la cui voce s’è sfogata fuori dalle travature del tetto del palco ed è assurta in cielo in stringhe che sono state caramellate dal buio accogliente di questa notte buona, e ha preso a ri-cadere sul marciapiede dove ora tutti, ma proprio tutti, si scambiano sorrisi non di circostanza anzi con labbra ebbre di gelato distribuito con scialo volgare ma gioioso per il piacere della gola che ci si muore sopra esattamente come accade nella procrastinazione delle conclusioni ai banchetti matrimoniali sulle aie apparecchiate d’agosto.
“Il mio destino compiersi non può che a lui dappresso: s’io non vivrò per esso… per esso morirò”
Sono state queste parole, versate con velenosa perizia e con insolente determinazione dalla gola profonda di una soprano allampanata algida d’una bellezza adunca e dal colorito terreo di chi non rinuncia alla propria fatale antipatia per qualsiasi forma di genericità, a dare il via alla serie di eventi.
La ‘cavatina’, con esplosivo languore, s’è insinuata sotto i vestiti a grattare le croste della memoria di specie e l’opera a cui si assisteva non è sembrato più solo una ben orchestrata finzione né la ben progettata fabbrica del vapore di bassi e acuti ma l’espletamento del progetto d’una piramide evolutiva al cui apice rimane appeso il frammento di un testo d’antropologia sinfonica.
Dicono, quei geroglifici canori, che, oggi come allora, è esperienza comune il voler morire quando ci capita di restare senza chi genera e alimenta quello che definiamo il senso della vita.