l’altra madre e questo amore conservato per ultimo
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”let the more loving one be me”
(collezione privata)
Gli aggettivi costano troppo. Poche lire ci sono restate per arredare la realtà delle cose, le loro qualità variabili. E, perdute le sfumature linguistiche, l’animo si arrocca. Tra l’edera del muro e i ‘ti amo’ (che si urlavano gli amanti sempre interrotti sempre a scegliere l’impossibile) che si sono smarriti, dapprima, poi dimenticati.
Cosi mi sono trasferito ‘fuori’. Prima di perdere quel poco di epidermica acuità che misura le attrazioni variabili tra le cose, nel campo gravitazionale del vivere.
C’è una riserva di energia selvatica tra l’edera e le ortiche. Tra la barbarie, che costringe all’obbedienza donne ragazzini e sottoproletari abbarbicati agli invasori, e i decotti miracolosi di erbe urticanti, preparati, per la salute della pazienza, dalle streghe di turno
Qua fuori le parole non sono perse, ma sono a terra. Devo raccoglierle, e sistemarle nell’erbario. Per le più primitive, infisse nel profondo dei cespugli di rovi, aspetto i calli alle mani.
Con lei, ugualmente, devo impratichirmi di nuovo. Mi è indispensabile questo rapporto, che suscita in me un sentimento, che sta tra una curiosità affamata e la nostalgia di una ulteriore nascita.
Al fine di durarle accanto, senza affliggerla dei miei premurosi affanni, devo ritrovare il mio sorriso beffardo: quello suscitato dall’altra madre, quella che sognava che io fossi il sole.
E mi chiedo: non è che una società si perde inesorabilmente quando più nessuno ha il coraggio di sognarlo, il sole, precisamente al centro del sistema planetario che crepita nel buio degli occhi di un amore conservato?
Qualcuno riconoscerà, nelle mie allusioni, l’esperienza di quei grandi ultimi amori che puoi dire, sfacciato, che sono per sempre.