cosa vuol dire per me che sei la più bella

13 Maggio 2022 Lascia il tuo commento

Che sei la più bella non vuol dire che ti ho confrontata ad ogni altra, ma solo che quando ti ho conosciuta ho smesso di fare confronti. E mi sono schierato da questa parte.

 

Questa parte non è spazialmente la tua parte, perché a noi due è proibito stare accanto da motivazioni che si oppongono a questa (e ad altre) bellezze e valori, a seguito di meschine legislazioni implicite nei sentimenti di odio.

 

Ad ogni buon conto, come si dice, dopo averti conosciuta, ho preso una posizione che mi assicurasse di non poter essere tacciato di ambiguità.

 

Rifletto sul prendere posizione perché l’amore, nel mio caso, non fu primariamente un fenomeno dell’intelletto né del cuore. Fu subire una azione: e schierarmi.

 

Accadde nel cuore. ‘Fisicamente’.

 

Fu una impulsiva precipitazione del sangue che sentii mischiarsi a se stesso in un turbinio  precordiale che immaginai di rossi scuri assortiti.

 

L’immaginare scombina la successione logica degli eventi e sovrappone i piani narrativi e la frenesia prende la sintassi e pone la necessità di riscrivere ogni norma dei Trattati di Procedura del Pensiero.

 

Si può sentire il sangue ripartire frenetico, vedere franare le blande colline della metafora, sconnettersi le giunture semantiche della parola amore.

 

Galleggia. Era pur sempre una barchetta bellina, di bella pergamena, che s’era subito affacciata alla mente: vagheggiata.

 

Ma nel caso specifico, in quel me torrentizio, non ha potuto sopportare la piena e non si è salvata.

 

Allora di che si tratta?

 

Non so dire altro che questo: il mio amore sono state immediatamente attese. Eventi esclusivi.

 

Dico che il mio amore era un bar e l’ombra di un bar e il marciapiede dove ti aspettavo e ti aspetto ogni giorno: da un’estate di diversi anni ormai.

 

Ti aspettavo sempre che venissi o meno ed è ancora così. Non è mai finito. Ti aspetto.

 

L’attesa è una malattia. Chi aspetta è un eterno convalescente, vivificato dal dopo di una guarigione solo promessa che ogni momento gli si prospetta vicina, vicinissima, inarrivabile.

 

Io da allora sto dalla parte della strada dove si aspetta. Un luogo accertato. Una piazza dell’anima in tua vicinanza. Non ho dubbi sulla mia sistemazione topografica. Tanto più non capisco l’odierna indecisione di tanti in molte questioni. E aggiungo che mi offende ogni indeterminata collocazione.

 

Quello che ho capito, quando ho smesso di enumerare le altre ragazze al tuo cospetto, è che è di vita e di morte che parla la dinamica alternante dei legami, e che dunque sarebbe stata una perdita di tempo riflettere tra ipotesi alternative prima di decidermi per te. 

 

“Già che mi sento sempre morire quando non ci sei” mi dissi. E chiusi la partita.

 

Quello conta. Che mi sento morire in assenza di te. Mi dice che esisto e chi sono.

 

Il grado di questa condizione, la qualità della convalescenza dopo la morte che ho sperimentato quando tutto è sprofondato all’idea di perderti, è modo di stare al mondo. È un modo sicuro, a suo modo.

 

È, il mio, un caso clinico. Che non si comprende intellettualmente. È più che altro un lavoro di continue invenzioni, di fusione di strumenti insoliti necessari a vivere tra le architetture dell’attesa – strutture composte di macerie ricondizionate – e proteggermi dal mondo che si contrappone a chi aspetta.

 

Devo restare da questa parte per non perdere il tuo arrivo. Devo stare all’angolo della stazione di smistamento, al rumore convulso della centrale del traffico che uccide.

 

Alimento il mio amore lontano da lì, sotto una tenda che ripara dal sole e dalla neve. Alla termoregolazione provvedono i molti caffè e le tiepidezze un po’ ipocrite dei passsanti che si alternano di fronte alla mia serafica e testarda immobilità.

 

Io ho te, caffellatte e mutismo. Molti non perdono occasione per manifestarmi il fastidìo di una irritata incomprensione.


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non debba mai pentirsi chi tanto un giorno amò
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